I PROCESSI DI DELOCALIZZAZIONE E INTERNAZIONALIZZAZIONE
In un'economia che tende sempre di più a globalizzarsi, la «delocalizzazione» e l’«internazionalizzazione» delle aziende sono una conseguenza ineluttabile di tale fenomeno, sconosciuto o poco studiato negli anni che hanno preceduto la metà del secolo scorso, pur traendo esso origine dalla nascita e lo sviluppo degli imperi coloniali nel XV e XVI secolo. Ragioni profonde e diverse, da quelle che caratterizzarono gli eventi manifestatisi nei suddetti secoli, spingono le nostre imprese a delocalizzare e ad internazionalizzare i processi produttivi.
Senza avere la pretesa di approfondire le motivazioni che inducono le aziende italiane a spostare l’attività economica in altri Paesi, una rapida rassegna, tuttavia, ne evidenzia cause ed effetti, vantaggi e rischi.
1 – Il minore costo del lavoro e del prodotto finito.
La differenza retributiva della forza lavoro è ritenuta come il principale stimolo per l’imprenditore italiano a raggiungere i mercati Orientali e del Nord Africa, ma non dell’Europa, dove i salari medi sono più alti fatta eccezione per alcuni Paesi posizionati nella Penisola balcanica (Albania, Romania, Slovenia, ecc.). Se l’esternalizzazione è motivata dal minore costo riferito sia all’impiego di risorse umane, sia – come conseguenza - dell’unità di prodotto finito il quale si riverbera poi sui prezzi di vendita, l’ulteriore deduzione è quella di consentire all’azienda di essere competitiva inprimis sul mercato interno.
Sul fronte delle risorse umane, un elemento da non trascurare è la disponibilità, nel Paese dove avviene la delocalizzazione, di manodopera e di tecnici specializzati, la cui retribuzione e gli oneri a carico del datore di lavori siano complessivamente inferiori rispetto alla nazionalità dell’azienda. sì da rendere la prestazione lavorativa motivo di alleggerimento dei costi di tutto il processo produttivo rendendolo in linea con le esigenze del mercato.
Ma quali imprese possono aspirare a delocalizzare? Se un tempo, non molto remoto, solo le aziende leader potevano nutrire siffatta aspirazione (ne è un esempio la FIAT, che costruì propri stabilimenti oltre Cortina in Russia, Polonia, Jugoslavia), la globalizzazione oggi consente anche alle PMI di radicarsi all’estero.
2 – Le agevolazioni fiscali e le semplificazioni burocratiche.
Occorre però possedere determinati requisiti per fruire dei benefici, sotto il profilo creditizio, in caso di delocalizzazione e internazionalizzazione: è necessario che le imprese piccole e medie abbiano bilanci positivi, regolarmente depositati o dichiarati in sede di presentazione del modello Unico, da cui si evincano le chiusure in attivo.
Vi sono Paesi la cui politica è improntata a concedere alle aziende agevolazioni o assenza d’imposte, ma anche il divieto della doppia imposizione in forza di accordi bilaterali fra Stati, i quali stabiliscono che il pagamento delle imposte avvenga solo in uno dei due. Non meno frequenti è, infine, la concessione di finanziamenti, nazionali e internazionali, per agevolare la delocalizzazione e l’internazionalizzazione.
Un handicap per le imprese, anche di quelle affermate nel made italy, è rappresentato da una forte burocratizzazione dei procedimenti richiesti per il rilascio di autorizzazioni, concessioni, adempimenti fiscali, i quali spesso richiedono tempi lunghi. Motivo ulteriore per indurre molti imprenditori a trasferire la propria azienda all’estero, in quei Pesi ove in quadro normativo contempla semplificazioni burocratiche.
3 – La disponibilità di materie, tecnologie e servizi adeguati.
La delocalizzazione delle PMI è attratta dalla possibilità di accedere alle materie prime o semilavorati e dall’impiego di tecnologie indispensabili al processo produttivo a costi, anch’essi, inferiori rispetto al Pese dove prima della delocalizzazione l’azienda produceva i beni. Tale acceso è (o può essere) facilitato dalla creazione di jont venture o di accordi aziendali di diverso tipo, quale la «collaborazione interaziendale» il cui accordo può avere tanto natura orizzontale (se le imprese operano nello stesso settore) quanto verticale (se le imprese appartengono alle medesima filiera produttiva).
La delocalizzazione è poi accompagnata da altre necessità legate all’efficienza della logistica e dei trasporti, condizionandone gli approvvigionamenti delle materie prime, dei semilavorati e incidendo sui costi del prodotto finito, sulla sua distruzione e, dunque, sul prezzo di vendita.
Sul piano organizzativo, l’imprenditore deve infine scegliere il Paese in cui delocalizzare: considerando le possibili opportunità di scelta alternative che offre il mercato:
a) creare una nuova azienda;
b) acquisire un’azienda del luogo;
c) collaborare con un imprenditore locale.
I vantaggi che offrono la delocalizzazione e l’internazionalizzazione delle aziende in determinati Pesi, non sono scevri di alcuni rischi cui è bene accennare.
4 – I rischi Paese.
I cultori della materia hanno tentato di darne una definizione che, in sintesi, consiste nella valutazione dei rischi ai quali può andare incontro l’azienda che effettua investimenti in un Paese estero, laddove essi non si verificano se l’investimento è effettuato nel mercato interno. La tipologia dei rischi è variegata, perciò deve costituire oggetto di attenta e ponderata valutazione da parte dei soggetti che conoscono a fondo le strutture politiche, economiche e sociali esistenti nel Paese in cui si vuole investire.
Di seguito l’elenco dei rischi - non intriseci all’investimento – che possono verificarsi, seguendo un ordine d’importanza:
a) socio politico. Occorre non sottovalutare il rischio costituito dai gruppi portatori d’interessi collettivi (ne sono un esempio i sindacati) o dai gruppi di pressione (le lobby), i quali, se fortemente radicati, possono condizionare le scelte governative. Ad esso si somma il rischio da instabilità politica che può dar luogo ad azioni volte a limitare la libertà d’impresa se non, addirittura a spinte che conducono alla nazionalizzazione degli investimenti esteri e a restrizioni al rientro dei capitali nel Pese di origine dell’azienda delocalizzata (ne fu un esempio l’espulsione di centinai di imprenditori commerciali dalla Libia nel 1970 e la confisca dei loro beni) ;
b) economico. E’ un rischio che può avere effetti sul piano sia «macroeconomico», se riguarda indifferentemente tanto le imprese nazionali quanto quelle che hanno delocalizzato e internazionalizzato i processi produttivi e si concretizza nelle spinte inflazionistiche elevate, nelle difficoltà delle banche a concedere i finanziamenti, nella crescita incontrollata del debito pubblico; sia «microeconomico» se colpisce singole imprese o specifici settori produttivi;
c) naturale o geografico). Tale rischio non è ponderabile o lo è in misura della conoscenza morfologica del territorio, perché è strettamente connesso al manifestarsi di disastri naturali, quali i terremoti che possono rendere pericolose talune attività produttive.
5 – I rischi legati al trasferimento di knowhow.
Il timore è che la delocalizzazione e l’internazionalizzazione possano avere effetti negativi sul know how, definito come capacità e conoscenze o come abilità, competenze ed esperienze necessarie al corretto svolgimento di determinate attività all’interno di un’azienda. La sua valenza si suole estendere alle regole che presiedono all’organizzazione e gestione dell’impresa. Requisito indefettibile del know how è la «segretezza» e «originalità», il cui impiego pratico serve a ottimizzare i processi produttivi e distributivi dei beni e servizi. Non necessariamente brevettabile, esso comunque pone il possessore in una posizione di privilegio sotto l’aspetto concorrenziale in un preciso contesto economico.
Per ovviare al possibile illecito uso del know how, il possessore – nella fattispecie l’imprenditore che ha trasferito all’estero i processi produttivi - può cederlo a terzi con contratto sinallagmaticocontenente le condizioni e le modalità di sfruttamento dietro pagamento di un corrispettivo.
6 – Conclusioni.
Si può delocalizzare o internazionalizzare un’azienda o un processo produttivo sulla base della programmazione – pur sempre necessaria - senza conoscere il mercato del Paese ove s’intende trasferire l’attività produttiva o esportare i beni/servizi? In teoria la risposta può essere affermativa; ma nessun imprenditore avveduto può prescindere da un’analisi delle condizioni offerte dal Paese, che esperti devono effettuare per suo conto. Perché se – come sopra brevemente descritto – le due scelte possono portare benefici economici, di contro essi possono esporre l’impresa a dei rischi, la cui valutazione rientra nella capacità di chi è in grado di consigliare ed assistere l’imprenditore stesso.
Un imprenditore che voglia trasferire la produzioni di beni o servizi all’estero non è in grado, da solo, di conoscere le varie fasi che precedono, accompagnano e seguono in loco l’evento.
Fase preparatoria: benché non sia strettamente necessario, è opportuno consigliare all’imprenditore un esame obiettivo (Check up) dell’azienda allo scopo di accertare eventuali criticità da sanare prima del trasferimento dell’attività produttiva. La fase comprende: a) l’acquisizione di notizie riguardanti il regime fiscale del Paese in cui delocalizzare e le eventuali agevolazioni concesse alle aziende straniere; c) l’acquisizione di notizie afferenti alle agevolazioni occupazionali (salari e oneri previdenziali); d) la predisposizione del Piano aziendale (Business plan).
Fase del trasferimento: il trasferimento dell’azienda è necessario che sia preceduta da alcune attività in loco, che solo chi conosce a fondo il mercato può compiere a beneficio dell’imprenditore: a) ricerca dell’immobile industriale o commerciale da acquistare o da affittare; b) ricerca e selzione del personale che dovrà rivestire le varie qualifiche nel processo produttivo; c) predisposizione degli incontri finalizzati alla stipula dei varii contratti (affitto, forniture, lavoro, ecc.) e al rilascio, da parte degli uffici competenti, delle autorizzazioni o concessioni necessarie per l’avvio del processo produttivo.
Fase dell’avviamento della produzione: anche quest’ultima fase può essere preceduta da importanti operazioni: a) eventuale costituzione della New company, qualora l’azienda delocalizzata dovesse subire un processo di ristrutturazione o volesse dar vita a una nuova azienda (start up); c) organizzazione funzionale al possibile trasporto degli impianti e/o macchinari da trasferire dalla originaria sede a quella dove produrre.
Fase delle verifiche e del monitoraggio: è necessario effettuare il controllo costante, almeno per un biennio di attività della Newco. Ciò consentirà di effettuare in corso d’opera gli aggiustamenti necessari affinché l’attività non si inceppi.
Giugno 2016
dott. Pietro Fulciniti